Category: Recensioni

Elogio dell’imperfezione

“Elogio dell’imperfezione” | recensione di Annalisa Di Gennaro

Un viaggio che percorre un arco temporale lungo tutta una vita quello che Rita Levi-Montalcini, premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1986, traccia nella sua autobiografia.
Elogio dell’imperfezione è un testo che cattura per la semplicità del suo linguaggio, anche nelle numerose sezioni meramente scientifiche, la naturalezza con cui l’autrice racconta la sua esistenza, a partire da Torino, sua città natale, agli anni dell’infanzia e della fanciullezza, alla perdita improvvisa del padre, alla storia della sua famiglia, in particolare al rapporto stretto e intenso con la sorella Paola, tanto diversa ma tanto essenziale per lei, agli anni durissimi dell’invasione e alla conseguente vita clandestina, in quanto ebrei, all’indomani della promulgazione delle vergognose leggi razziali.
Ma ciò che resta maggiormente impresso, oltre alla tempra di questa grande donna, definita dall’amico Primo Levi “una piccola signora dalla volontà indomita e dal piglio di principessa”, è l’amore per la ricerca, anche in mezzo a tante e tali tempeste, o anche il rapporto forte e sincero con gli amici e i compagni di studio, tra i quali spicca Renato Dulbecco, e ancora la nuova vita al di là dell’Atlantico, fino alla scoperta del Nerve Growth Factor, scoperta che le valse appunto il premio Nobel.
In un contesto, quale quello odierno, tanto preso dalla perfezione o meglio dal finto perfezionismo, dovremmo tenere bene a mente ciò che l’autrice enuncia sin dal titolo, ossia quanto l’imperfezione, e non il suo contrario, sia alla base di ogni umana azione, perché è proprio dall’imperfezione che scaturiscono le grandi idee, ma soprattutto ricordarlo, oltre che a noi stessi, ai giovani di oggi tanto inquieti, insicuri e fragili perché spinti, spesso da genitori frustrati e non appagati, ad essere perfetti a ogni costo. E non è un caso che una delle tracce della scorsa maturità (a.s.2023-2024) traesse spunto proprio dall’opera della Montalcini, scelta quanto mai ponderata e opportuna.

Life

“Life” | recensione di Annalisa Di Gennaro
“Life. La mia storia nella Storia” è un viaggio che ripercorre le tappe più importanti della vita di Papa Francesco, andando di pari passo con gli eventi della storia, dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale ai giorni nostri, in un mondo sempre più lacerato da quella che il Pontefice definisce da tempo la Terza Guerra Mondiale “a pezzi”. Colpisce l’immediatezza con cui il Pontefice racconta al lettore la propria vita, come se la stesse realmente narrando a ciascuno di noi, da quando, nel 1939, papà Mario e mamma Regina, dalla lontana Argentina, ove la famiglia era emigrata, apprendono via radio dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, del folle piano di sterminio di milioni di Ebrei, e dell’evolversi della guerra che avrebbe portato distruzione e morte. Rimane impressa la determinazione con cui il Papa, avendo chiara consapevolezza di non essere amato da tutti all’interno del Vaticano, per il peso delle sue parole, per il coraggio delle sue azioni e delle sue scelte, decide, pur tuttavia, ogni giorno, dal lontano 2013, di andare avanti con la sua missione che rievoca, sin dal nome che lui stesso ha scelto per sé, il desiderio di perseguire quella purezza e povertà evangeliche tanto care al frate di Assisi. Sembra quasi di vedere il giovane Jorge entrare nella compagnia di Gesù nel 1969, camminare per le vie della sua Argentina instancabilmente al servizio del prossimo, non tirarsi mai indietro, nemmeno negli anni duri del colpo di Stato di Videla e dei desaparecidos, non avere timore di nascondere chi avesse avuto bisogno di protezione, andare alla disperata ricerca di tante persone rapite e barbaramente uccise. Coinvolgenti, in particolare, i racconti dello sbarco sulla Luna nel 1969, della caduta del Muro di Berlino nel 1989, della nascita dell’Unione Europea nel 1992 e dei drammatici attacchi terroristici dell’11 settembre, quando l’Occidente sperimenta, per la prima volta, la propria vulnerabilità. Un Papa, insomma, che, ancora una volta, non ha timore di mettersi a nudo, invitandoci a porre sempre al centro la figura più importante di cui Dio ci abbia fatto dono: Gesù Cristo, “vera via, verità e vita”.

Cambiare l’acqua ai fiori

“Cambiare l’acqua ai fiori” | recensione di Annalisa Di Gennaro
La protagonista di Cambiare l’acqua ai fiori, Violette Toussaint, è la guardiana di un cimitero di una cittadina francese (precisamente della Borgogna).
La narrazione procede in parallelo, passando dalla Violette del presente a quella del passato, così che, mano a mano che ci si addentra nella storia, il lettore si immerge in modo del tutto naturale nel tempo della sua prima vita, quando faceva la guardiana di un passaggio a livello e a scandire ogni momento erano le sbarre da abbassare e da rialzare per circa quindici volte al giorno, tra le quattro abbondanti del mattino e le undici appena della sera, per poi tuffarsi nel tempo della sua seconda vita, quando la protagonista si ritrova a fare la guardiana del cimitero in sua custodia, ove riesce a prendersi cura delle tante figure che lo popolano tutti i giorni (visitatori di ogni tipo ed età, ma anche cani e gatti alla ricerca dei loro padroni ormai scomparsi).
Violette è una donna, per forza di cose, molto forte: abbandonata alla nascita dai genitori, lasciata nuovamente ma stavolta da un marito viziato, sregolato e molto più grande di lei, si ritrova poi a dover affrontare la prova più dura che la vita possa riservare.
Ma lei, dopo un periodo di enorme sconforto, riesce a trovare dentro di sé la forza per andare avanti paradossalmente proprio all’interno di quel cimitero, luogo di dolore ma nel suo caso anche di rinascita, come a dire che la vita è sempre più forte della morte, persino davanti ai dolori più crudeli.
La tecnica della narrazione usata da Valérie Perrin è quella del diario. Essa contribuisce, accompagnata da una buona dose di umorismo da parte della protagonista, a rendere il testo scorrevole e di gradevole e appassionante lettura per tutti coloro che vorranno conoscere una donna che difficilmente potrà essere dimenticata, così come la Renée Michel, protagonista dell’altrettanto indimenticabile L’eleganza del riccio.

Ti voglio felice

“Ti voglio felice” – Papa Francesco
| Recensione di Annalisa Di Gennaro
Con una scrittura che cattura e che coinvolge per la sua scorrevolezza e linearità Papa Francesco regala pagine che illuminano il cammino di noi, cristiani del XXI secolo, forti di un credo quotidianamente messo alla prova da logiche sempre più lontane da Dio perché scomode, difficili da accettare e da attuare.
Eppure, sebbene negli schemi del comune sentire la nostra sia la fede della malinconia, il Pontefice, nel suo Ti voglio felice. Il centuplo in questa vita, ci invita a riflettere sul cammino verso la felicità, che è poi la felicità di Dio, perché è proprio il Creatore che ci ha voluti felici e non tristi, come il mondo, specie in questi anni estremamente bui, ci condanna ad essere.
Che cos’è dunque la felicità? Ce lo chiediamo spesso e, non riuscendo a racchiuderla dentro una precisa definizione, ci perdiamo, anche se in realtà la felicità è un dono ricevuto, la felicità si regala, la felicità è un cammino, la felicità non è vivacchiare, come siamo tentati di fare quando ci buttiamo giù davanti alle prove che la vita ci mette costantemente davanti, la felicità è fare veri sogni, la felicità è rivoluzionaria perché il vero rivoluzionario è colui che riesce con coraggio a rompere gli schemi dell’apatia e del malumore, la felicità è amore concreto, non superficiale o finto, infine la felicità, per quanto possa sembrare difficile crederlo, è il centuplo in questa vita: “Gesù, che è con noi, ci invita a cambiare vita. E’ Lui, con lo Spirito Santo, che semina in noi questa inquietudine affinché cambiamo vita e diventiamo migliori. Seguiamo questo invito del Signore e non poniamo resistenze, perché, solo se ci apriamo alla sua misericordia, troviamo la vera vita e la vera gioia”.
Un testo che trasmette tanto a chi è predisposto ad accogliere Dio, la Sua Parola, nell’ottica della vera gioia evangelica, quella della certezza che siamo stati creati per essere messaggeri di felicità, per noi stessi e per gli altri, pur in mezzo alle delusioni, alle ingiustizie e alle tribolazioni di questa terra, tuttavia con la costanza e con l’impegno di essere felici o almeno di provare ad esserlo.

Il copista

“Il copista” – Marco Santagata
Recensione di @gennaroannalisadi
Attraverso una narrazione che cattura e coinvolge Marco Santagata, critico letterario e docente universitario recentemente scomparso, delinea il ritratto di colui che si è soliti definire il precursore dell’Umanesimo.
Ci troviamo a Padova, è un freddo e nebbioso venerdì di ottobre, quando Francesco Petrarca, angustiato da diversi problemi allo stomaco che lo tormentano da un po’, si accinge a scrivere una canzone, “Standomi un giorno solo a la fenestra”. Il lettore si trova presto coinvolto nella descrizione dell’animo di un uomo ormai stanco, ma nello stesso tempo fortemente consapevole dell’enorme eco suscitata in tutta Europa dal suo importante e altisonante nome.
E così con uno stile narrativo, a mio avviso, a tratti irriverente, ma forse proprio per questo tanto più significativo, Santagata riesce nell’intento di mostrarci la parte più intima e umana del grande poeta, passando attraverso le dolorose vicende della sua vita, dai figli legittimi e non, all’abbandono, evento questo, a detta dell’autore stesso, romanzato, dato che la critica più recente non ne ha riscontrato alcun fondamento storico, da parte del caro copista Giovanni Malpaghini, futuro docente universitario a Firenze, considerato da qualcuno superiore persino al suo maestro per la purezza dello stile latino, fino alla forzata convivenza con la serva Francescona e ai brevi cenni alla figlia Francesca e al genero Francescuolo, per i quali si percepisce Petrarca nutrisse autentico e sincero affetto.
Un testo che dona al lettore un’immagine del poeta aretino umana, concreta, tangibile, tormentata, per gran parte della sua esistenza, da profonda inquietudine, insoddisfazione e soprattutto da quella che comunemente si è soliti definire accidia, ossia la condizione che non gli consentiva di mutare il proprio atteggiamento davanti alle circostanze, pur sentendone la necessità e l’obbligo.
Ritratto che resta in memoria per l’originalità con cui è stato pensato e costruito, che consiste nel non separare il poeta dall’uomo come invece, per abitudine consolidata, si è soliti fare.

I giorni dell’abbandono

“I giorni dell’abbandono” – recensione di Annalisa Di Gennaro
Viaggio nell’anima di chi conosce il dolore dell’abbandono, un abbandono inaspettato e non calcolato e per questo fonte di una lacerazione che parte da dentro, scava e sembra non dare tregua, una sofferenza che toglie il respiro, annienta, annebbia la mente, portandone via tutti i pensieri, anche quelli che, fino a pochi giorni prima, avevano costituito solide e inoppugnabili fortezze.
E’ da qui che prende le mosse la narrazione, quasi sotto forma di diario, di una donna, Olga, la protagonista de I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante, che vede la sua esistenza e le certezze che questa porta con sé crollare in un attimo in seguito all’improvvisa decisione del marito di lasciare lei e, almeno in un primo momento, i loro due figli.
Ancora una volta si viene come trascinati da una narrazione che magari non lascia a bocca aperta come nel caso de L’amica geniale: non ci sono storie di degrado, fame, miseria (al rione napoletano si sostituisce una tranquilla e rassicurante Torino), non compaiono personalità geniali, sono assenti i colpi di scena, ma è una storia che si fa sentire per il coraggio, la determinazione, la forza di una donna, che dagli abissi più profondi in cui da un giorno a un altro precipita, lentamente risale la china per vedersi rinascere e perdonarsi una colpa che forse non ha e non ha mai avuto perché in fondo non esistono colpe quando si ama senza sconti e sotterfugi.
Il tratto stilistico della Ferrante è di nuovo in grado di lasciare il segno, ma senza forzature né inutili giri di parole in una maniera che è insieme energica, arrabbiata, ma anche profonda, sincera, vissuta. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, percepibile sin dalle prime battute, che rende, a mio avviso, la scrittura tanto concreta e vera da poterne ricavare immediata e non banale immedesimazione.

L’amica geniale

“L’amica geniale” – Elena Ferrante | Recensione di Annalisa Di Gennaro

In un rione di una Napoli degli anni Cinquanta si collocano le vicende di Elena Greco – detta Lenù – e Raffaella Cerullo – detta Lila – protagoniste de “L’amica geniale” di Elena Ferrante. La narrazione prende avvio dalla telefonata di Rino, figlio di Lila, a Lenù, che oramai non vive più a Napoli, per confessarle la sparizione della madre; da quel momento Lenù deciderà di scrivere la storia della loro tortuosa amicizia. I caratteri delle due protagoniste si delineano da subito: Lenù, dolce e remissiva, Lila, infida ma di un’intelligenza fuori dalla norma. Il percorso delle due ragazze si dividerà tante volte: Lenù riuscirà ad affrancarsi dalla violenza distruttiva del rione, laureandosi presso la Normale di Pisa, mentre Lila pur avendo soltanto la quinta elementare, sebbene in grado di gestire un centro di elaborazione dati, non andrà mai via. Storia di un’amicizia, ma anche storia di ciascuno di noi ogni volta che ci troviamo innanzi alle scene violente di quel quartiere, di quella Napoli, di quell’Italia. Ci si immedesima nei sentimenti che animano le due protagoniste che spesso le portano a distaccarsi per poi ritrovarsi; artefice di questi allontanamenti sarà sempre Lenù per proteggersi da quel flusso di malvagità gratuita che la stessa Lila ammette di emanare. Ci si chiede a questo punto come mai, nonostante la sofferenza di un rapporto di certo non sano, Lenù e Lila finiscano sempre per ricongiungersi almeno fino al momento finale. La risposta risiede, a mio avviso, nel fatto che Lila senza gli stimoli, gli incoraggiamenti, le liti non sarebbe Lila, senza Lenù non avrebbe cioè quella forza interiore che la fa essere tanto geniale quanto crudele, spietata, ma anche sinceramente legata a lei, così come Lenù, che negli anni si affermerà come scrittrice di discreta fama, senza Lila non sarebbe più in grado di scrivere e di esprimere il suo tormentato mondo interiore. Storia di complementarità tanto crudele e ingiusta quanto vera, tangibile, concreta. Narrazione e scrittura catturano il lettore in maniera così appassionante che si ha la sensazione di vivere la loro difficile amicizia, di abitare il rione, come fossero reali e visibili.
Annalisa Di Gennaro